Dad. L’Italia è un paese per vecchi, con il consenso dei giovani

MORBEGNO – Sono molte le sfide che negli ultimi mesi i docenti e gli studenti sono stati chiamati ad affrontare. Il dibattito legato alla validità, o meno, della Didattica a distanza, la difficoltà di rinnovarsi e di “inventarsi” un nuovo metodo di apprendimento e di insegnamento, la necessità di poter contare su di un sistema scolastico efficace ed efficiente hanno posto molti di fronte ad una difficile prova.

Ad interrogarsi sui cambiamenti che il mondo della scuola sta attraversando è Daniele Chiarelli, docente di scuola secondaria in pensione.

L’Italia un paese per vecchi? Sì, lo sapevamo, ma che lo sia col consenso dei giovani, no. E questa è la considerazione che viene da fare pensando alle decine di città dove Anita, Lisa e tanti altri stanno protestando per un rapido ritorno a scuola. Per carità, ne hanno pieno diritto, specialmente ora che vedono le vie affollate per gli acquisti di Natale e i bar aperti. E poi, certo, hanno diritto alla socialità, all’incontro con l’amica del cuore o col compagno di banco. Ma… c’è un ma enorme.

Un evento come il Covid19, che sta segnando in profondità le nostre società, ci sta anche dimostrando che non ci piace guardare al futuro, abbiamo piuttosto voglia di passato, un passato che, nonostante i mugugni, ci stava e ci sta bene così com’era. E non scuotete la testa.
Prendiamo proprio la scuola. Che una classe docente tra le più vecchie d’Europa tuoni contro la didattica a distanza non stupisce nessuno. Ma che dei giovanissimi sentano la nostalgia della trimurti “spiegazione-interrogazione-verifica”, da decenni, a parole, bersagliata di critiche, fa davvero cascare le braccia.

La didattica a distanza per qualche settimana, nei mesi di marzo-aprile, è sembrata il grimaldello attraverso cui potevano irrompere, nel sonnacchioso e burocratizzato mondo della scuola, una serie di novità. Anziani professori che discutevano (a distanza) sulle caratteristiche delle diverse piattaforme, giornalisti che facevano (per la prima volta da decenni) gli elogi di una scuola che reagiva all’emergenza garantendo un servizio, giovanissimi che ritrovavano, attraverso lo smartphone, i compagni e i maestri da cui dovevano rimanere fisicamente separati.

È durato lo spazio di un mattino. Davanti all’oggettiva necessità di inventarsi qualcosa di diverso dalla consueta (e rassicurante per tutti) routine consolidata, sono spuntati i distinguo da tutte le parti. Come si fa a spiegare, a interrogare, a controllare che i ragazzi non copino o non consultino gli adulti in casa… e via di questo passo. Nessuno sforzo per immaginare modalità diverse di comunicazione, di coinvolgimento, di valutazione e misurazione dei progressi. Fino a impostare una lezione a distanza come una videoconferenza, a demonizzare le informazioni reperibili in rete. Come se la rete, invece che amica e generosa padrona di casa, fosse una pericolosa avversaria da eliminare.

Non è questa la sede, ovviamente, per entrare in dettagli tecnici, ma di questo passo rischiamo di buttare via un’esperienza per certi aspetti irripetibile. Ovvio che guardare in faccia gli interlocutori da vicino, così come percepire il livello di attenzione del gruppo è davvero possibile solo in presenza. Ma perché negare che la didattica a distanza, in certe situazioni, per i ragazzi dai quindici anni in su, può garantire tempi flessibili di apprendimento, ridurre i tempi morti (vogliamo parlare del rito italico delle interrogazioni?), venire incontro alle necessità dei pendolari e così via. A condizione, ovviamente, che si abbia in mente un’altra scuola, non fondata sulla citata trimurti e neanche sulla triste e vacua discussione estiva su banchi a rotelle e rime buccali.

A chi ha, oggi, quindici-sedici anni, il compito di chiedere una didattica di qualità, in presenza come a distanza, volgendo lo sguardo in avanti e magari dando un’occhiata ad altre esperienze europee.

Daniele Chiarelli
(docente di scuola secondaria in pensione)

Foto in copertina di: Daniele Chiarelli